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Perdonare non è un atto di debolezza
L’empatia ci permette di capire il dolore dell’altro
Una madre sa perdonare, perché sa guardare il figlio con gli occhi dell’amore. Dicono che, a volte, una madre tra i suoi figli ne prediliga uno, e in genere non è quello che è fonte di gratificazione e orgoglio, ma è quello più fragile, quello che non accetta le regole, che si caccia nei guai.
Per perdonare occorre avere la stessa capacità di immedesimazione di una madre: l’amore a volte consente di vedere l’altro come se lo si guardasse con i suoi occhi.
Con i nostri occhi vediamo troppo spesso solo le nostre ferite, le nostre sofferenze; se guardassimo con gli occhi dell’altro, vedremmo anche il suo dolore, la malattia, l’ingiustizia subita, l’ignoranza, a volte la disperazione più svuotante: non sono giustificazioni, sono motivi. Che Gesù seppe cogliere in Croce, prima di spirare, invocando il perdono del Padre sui suoi assassini, perché ”… non sanno quello che fanno”. La misericordia di Dio sa leggere nel cuore di ogni persona.
Ci sono cattiverie e atrocità che sembrano imperdonabili. Ci sono persone che esigono settanta volte sette quintali di pazienza. A volte una madre, e così un educatore, deve diventare anche un domatore di leoni. Lo sanno bene gli insegnanti che si tengono sempre vicino il più “pestifero” della classe, o almeno ci provano, perché la stessa persona diventa totalmente diversa se guardata con amore anziché con disprezzo. E poi, chi siamo noi per giudicare chi è il “più pestifero”? Ricorda Papa Francesco che “l’unica forma lecita per guardare una persona dall’alto in basso è quando le dai una mano per aiutarla ad alzarsi”.
E’ la grande fatica del perdono.
Si tratta di consolidare un’abilità che tutti abbiamo, di rinforzare dei percorsi interiori che portano a quel risultato. Negli anni novanta del secolo scorso un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, coordinati da Giacomo Rizzolatti, scoprì che abbiamo delle cellule chiamate “neuroni-specchio”, per cui siamo predisposti a sentire quello che sentono gli altri.
Per empatia, una sorta di contagio, capiamo l’altro perché dentro di noi proviamo gli stessi sentimenti, le stesse emozioni. Quando vediamo qualcuno che soffre, i neuroni-specchio ci consentono di leggere l’espressione del suo viso e ci fanno provare la sua stessa sofferenza: tutto ciò è la base del senso morale ed è un forte antidoto all’indifferenza.
Perdonare non è un atto di debolezza: “Persino di fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta” (Omnes Fratres, p. 243).
Un esempio? Nel secolo scorso Albert Bruce Sabin scoprì il vaccino contro la poliomielite e rinunciò a brevettare la sua invenzione affinché il prezzo contenuto consentisse di diffonderlo anche tra i poveri. Era ebreo e le sue due nipotine furono uccise dalle SS. Alla domanda se lui avesse desiderio di vendetta, rispose:
“Mi hanno ucciso due meravigliose nipotine, ma io ho salvato la vita a centinaia di migliaia di bambini di tutto il mondo. Non la trova una splendida vendetta? Vede, io credo che l’uomo più potente sia quello che riesce a trasformare il nemico in un fratello”.
Chi perdona non cade nell’errore di usare il male per fare altro male. E merita i suoi applausi!