Una strada sicura, sapersi accontentare

Una strada sicura, sapersi accontentare

Veloci nella tecnologia ma disorientati su dove stiamo andando


Viviamo di corsa, facciamo tutto di corsa. Non abbiamo tempo. O, forse, ne abbiamo anche molto, ma ne disperdiamo di più. Pensiamo soltanto a quante volte ognuno prende dalla tasca o dalla borsa il proprio smartphone per mille motivi: per leggere o mandare messaggi dall’abbondanza di canali praticabili; per consultare o per aggiornarci via internet; per vedere se qualcuno ci ha mandato una mail. 

Qualcuno confessa il rammarico che si parla poco con le persone, a differenza di quanto accadeva nel passato. Domanda: ma ci proviamo a scambiar parola con chi incontriamo e magari anche conosciamo, andando oltre uno striminzito “buon giorno” o “buona sera”, quando pure ci sono?

Dai riscontri che ho, dal vivo, o da quanto mi scrivono alcuni lettori, emerge o sono dichiarati a chiare lettere;

  • il bisogno di apertura verso gli altri, frenato dalla diffidenza o dalla paura, in espansione dopo l’esperienza con il covid; 
  • il desiderio di recuperare qualche spicchio di speranza, respirando il tempo e le stagioni;
  • la necessità fisiologica della speranza, nonostante tutto.

Una mamma, oggi nonna, sempre in affanno per seguire i nipotini, confessa: “Noi avevamo poco, spesso anche niente, però ci sentivamo meglio ed eravamo più sereni e meno competitivi”. 

La civiltà contadina, che si è prolungata per secoli pur fra inevitabili cambiamenti imposti dai tempi e dalla storia, ha avuto un tessuto di comunanza più forte e identitario rispetto alle accelerazioni e convulsioni della modernità, che è già postmodernità, perché oggi è tutto e subito “post”. La generazione dei nonni odierni è cresciuta indubbiamente più spensierata, allegra, meno competitiva e più socievole. Ora si vive il paradosso che sommersi dai social, stiamo diventando una generazione “a-social”, che non comunica o incontra fatica nel farlo; intanto si estendono isolamento e solitudine. 

Un’altra signora – Marianna – che auspica una robusta rinascita della speranza, annota con amarezza “la deriva sociale e direi umana che il mondo ha imboccato, roba che fa sussultare il cuore…” anche per l’evidente perdita di molti ancoraggi di indubbia efficacia come il senso del limite e quello del dovere, il sacrificio nell’impegno per raggiungere un risultato, la fiducia e il rispetto degli altri. I segnali percepibili sono svariati: si sorride di meno, non si canta quasi più, anche le espressioni di tenerezza vera e di innamoramento sono rare e paradossalmente si assiste a una iperglicemica ansia di una certa visibilità, con selfie in misura esponenziale. 

In un recente libro di Chiara Valerio, intitolato “La tecnologia è religione” (Einaudi), per parafrasare quanto appunto è in atto nella nuova superpotenza, cioè la tecnologia, si usa l’immagine degli algoritmi sul trono di Dio. 

“Ma non si deve pensare – conclude la signora Marianna – che non si possa ritrovare il senso della saggezza e del confine da non oltrepassare. E dunque restiamo saldi nel dare esempi e input positivi”.

Forse una formula collaudata e valida anche in quest’epoca di apoteosi social con FB, Instagram, follower, è quella che anni or sono mi indicò un intellettuale che era anche un autorevole educatore: Costantino Locatelli. Sta in due parole decisive: “Sapersi accontentare”.