Ma di quale Natale parliamo?

I preparativi si concentrano sui contorni, manca il cuore del mistero


Il Natale in arrivo è accolto come sempre da un’apoteosi di luminarie lungo le strade e nello sfarzo esibito alle finestre e sui balconi. La festa più fulgida dell’anno accende anche tutto un percorso di ricordi, di volti, di intime reminiscenze avvolte spesso in un velo di nostalgia. Ciascuno ha il suo modo di riandare ai Natali che furono, quelli lontani: certo più sobri rispetto allo sfavillio d’oggi, ma quanto più intrisi di serenità, di capacità di apprezzare anche le piccole cose, come la preparazione del presepio e dell’albero, l’attesa della Messa di mezzanotte o di quella che precedeva l’alba. C’era quasi sempre la neve a far da candida cornice. A passi affrettati, da strade e sentieri si raggiungeva la chiesa. Gli auguri, le strette di mano e gli abbracci (usanza poco diffusa allora, e non c’era il covid in agguato a escluderli) costituivano la parte finale del rito, con le ultime note dell’organo e del “Tu scendi dalle stelle” o “Astro del ciel”. Poi, tutti intabarrati, via di corsa verso casa, per una fetta di panettone e un bicchiere di “vin brûlé”. 

I proverbi non sono nati dal nulla ma dal vissuto: si viveva davvero il “Natale con i tuoi”, con l’atteso ritorno dei “Maestran” da oltre San Gottardo o anche da più lontano dopo un’annata di fatiche per ricongiungersi alle famiglie: adesso, con settimane di anticipo, si comincia a pianificare dove andare per sottrarsi alla tradizione di cene della vigilia o pranzi del “gran giorno” e alla ripetitività di incontri mal sopportati con zii, cugini, nipoti. Poi ci lamentiamo delle crescenti solitudini che affollano le nostre case, blindate per scoraggiare ingressi non annunciati, piene di tutto dentro ma prive spesso di quell’elemento fondamentale che si chiama calore.

Appena lasciati alle spalle i Santi e la commemorazione dei Defunti, i giorni che inaugurano novembre, si intensifica l’offensiva del consumismo e la voce più alta è quella del verbo “comprare”, sempre naturalmente all’insegna dell’acquisto più conveniente. Case rifornite di ogni bene, ma dove si è persa familiarità con l’essenziale, con le cose che contano. 

Nel Natale di una volta, in qualche villaggio, c’era la tradizione di tagliare qualche rametto di ginepro da bruciare poi sul camino o nella stufa: ed era bello sentire il crepitare degli aghi nelle fiamme per scaldare – così voleva la tradizione – i pannicelli al Bambino del presepio che si allestiva in ogni famiglia. Nella semplicità, era un modo di umanizzare un evento divino, di unire terra e cielo con quel fumo particolare che tutti, fin da piccoli, imparavano a conoscere, non dimenticandosene mai più nel presepio del vivere quotidiano. Era un Natale dove ci si accontentava del poco. Oggi si ha molto e non se ne ha mai abbastanza. Perfino il dono è stato svalutato, non si pensa più alla gioia del dare qualcosa a una persona: prevale l’aridità di una sorta d’obbligo, un rito dovuto. Siamo arrivati ad un mondo dove nessuno attende più nessuno e il Bambino stesso è decorativo, marginale nelle nostre case: un bimbo di gesso che non disturbi troppo, quando ci sarebbe urgenza di riscoprire il cuore del mistero di Betlemme.

Per respirare un po’ il clima al tempo dei “Maestran”, pubblichiamo questa intensa poesia di Giuseppe Arrigoni che sa ricreare con grande sensibilità e delicatezza l’eco misteriosa e l’emozionante fascino di quei Natali. 

Ritornano gli emigranti

Giuseppe Arrigoni

Tornan indré da vía pal munt: 

ul pesantúr di valís 

al smora la vöia di pass 

che vöraress gulá.

Rummp ul silenzi

Da la Campagnadurgnia,

gelada da nef,

bof da riciám,

armuniús,

da nuven da Natál.

Ga respunt

I ültim cantá

Disperaa di gai

Cundanaa ai furnéi.

Maestrán, öcc fiss inanz 

sbögian la nebia par 

sguisí 

ul prim regiuu dal paés, 

ul campanín.

Ültim pass,

ültim tòcch d’una strada

sugnada 

par mes e par mes.

Pö la cá, la dòna, 

i fiöö, 

ul camín cun la brasa 

ch’a scolda in di cör 

ul frecc immügiaa dal vess vía pal munt.