Spiragli di luce

Dalle ferite del calvario alla grazia della risurrezioneottotitolo


Un giorno mi trovavo in Umbria, e camminando per un sentiero che collega San Damiano alla rocca di Assisi, ho scorto un albero con una feritoia al centro del tronco. Avvicinata per immortalarlo con uno scatto fotografico, sono rimasta incantata del mondo apparso …da quella “finestra”!

Da quell’insolita angolatura, proprio a causa di questa ferita, la luce passava e si vedeva un paesaggio inaspettato.

La trasposizione alla nostra realtà quotidiana pare scontata: noi sovente rimaniamo attaccati al “nostro tronco” fatto di pseudo certezze, di esperienze già fatte e rifatte, di legami consolidati che sono un’ancora nel nostro mare agitato e insicuro della vita.

Ma solo la feritoia ci apre a nuovi orizzonti.

A volte noi siamo pieni, come il tronco dell’albero, e non c’è spazio per null’altro. La luce quindi non riesce ad entrare. 

Come non cogliere la Grazia che ci viene dalle ferite di Gesù?

 “…dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2,25): è una promessa, che diventa preghiera, che ci introduce nel mistero di Gesù crocifisso e risorto. I due aspetti vanno sempre all’unisono. Non possono essere disgiunti, perché se lo fossero o si esaspera la sofferenza, fino a idealizzarla, o si sceglie solo la parte esaltante e gloriosa, rischiando di non accettare la faticosa quotidianità.

Morte e resurrezione sono facce della stessa medaglia: il mistero pasquale. 

Una persona che ha saputo entrare nel cuore di Cristo e testimoniarlo fino alla fine dei suoi giorni, è stato don Tonino Bello.

Il vescovo di Molfetta, oggi venerabile, ha lasciato spazio alla Luce, prima con i gesti e gli incontri, usando parole e forza fisica. Poi ha dovuto lasciarsi erodere nel fisico (ma non certo nell’anima!) dalla malattia che l’ha colpito, che l’ha purificato, preparandolo all’incontro con il Maestro.

La sua persona e la sua vita sono un canto sempre più puro ed elevato a Dio.

Ha interpretato prima il suo essere sacerdote, poi il suo essere vescovo, con il concetto a lui molto caro “della chiesa del grembiule”. 

“La cosa più importante, comunque non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile.”

 I ministeri vissuti nell’autenticità del mandato di Gesù, cioè nel servizio. Per la Pasqua del 1990 così scriveva:

“Intraprendiamo, allora, il viaggio quaresimale, sospeso tra cenere e acqua. La cenere ci bruci sul capo, come fosse appena uscita dal cratere del vulcano. Per spegnerne l’ardore, mettiamoci alla ricerca dell’acqua da versare…sui piedi degli altri.

Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il cammino del nostro ritorno a casa.

Cenere e acqua. Ingredienti primordiali di un bucato di un tempo. Ma soprattutto simboli di una conversione completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi”.

Solo nell’avvicinarci all’altro, sia perché soffre sia perché semplicemente è sul nostro cammino, entreremo in quell’ottica di fare posto, creare un vuoto per lasciare spazio al nostro prossimo. E in quell’incontro ci apriamo a Gesù che passa.

Con l’augurio di Don Tonino: “Possiate passare dai crinali dell’ascolto, delle emozioni sui crinali scoscesi della prassi che vi impegniate, cioè che vi sporchiate le mani, che scendiate sul campo. Non state alle finestre a guardare, ad applaudire o fischiare i protagonisti del corteo che si snoda sotto casa vostra. Datevi da fare”.

La tentazione di immobilismo, del “si è sempre fatto così”, ci inchioda ad un modello di vita, personale, familiare ed ecclesiale, che ci fa perdere le occasioni continue del passaggio della Grazia. 

In uno scritto famoso, “Il complesso dell’ostrica”, citato qualche tempo fa anche da Papa Francesco, don Tonino scriveva: “Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze, alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci in mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno.”

Solo con il coraggio di perdere un po’ del nostro egoismo, di fare un passo indietro, ci troveremmo immersi nella Luce e rigenerati da un’acqua che zampilla, e che non ristagna!