Questi 54 anni in San Lorenzo

Questi 54 anni in San Lorenzo

I miei vescovi da Martinoli a Lazzeri sulla Cattedra della Diocesi di Lugano


Ho vissuto da vicino l’iter verso la nomina di 6 vescovi. Il primo, ai miei esordi giornalistici – e rivedendolo ora, era un giornalismo popolato da 6 quotidiani e due trisettimanali, epoca giurassica rispetto ad oggi – fu con la scelta di mons. Giuseppe Martinoli,

eletto Vescovo e Amministratore apostolico del Ticino il 30 luglio 1968 e consacrato il 15 settembre. Aveva 65 anni. Con la separazione del Ticino dalla Diocesi di Basilea, nel 1971 fu il primo Vescovo di Lugano. Lasciò dopo 10 anni, il 16 settembre 1978, secondo la prassi introdotta da Paolo VI che prevedeva la rinuncia al compimento dei 75 anni. Martinoli fu il successore di Angelo Jelmini,

Vescovo per oltre 30 anni, morto il 24 giugno 1968. In poco più di un mese ci fu la nomina: uno dei tempi più corti per la designazione nel Ticino dalla seconda metà del Novecento. 

Ho poi seguito più da vicino e più “dall’interno”, con il “Giornale del Popolo”, la scelta, nomina e consacrazione dei 4 Vescovi successivi, fino a Grampa.

Seguii quasi in diretta il travaglio, si può dire la sofferenza dell’accettazione di don Ernesto Togni,

che avvertì subito la fatica e il peso di una simile responsabilità e ne avrebbe fatto volentieri a meno, preferendo di gran lunga restare parroco a Tenero Contra, a due passi da Brione e dalla sua Verzasca, dai suoi affetti più cari, a cominciare dalla mamma. Accettò per obbedienza. Eletto il 15 luglio 1978, fu uno degli ultimi voluti da Paolo VI, morto il 6 agosto dello stesso anno. Togni, sotto il peso di una sofferenza interiore crescente, rassegnò le dimissioni il 21 giugno 1985 (comunicate il 24). Per completezza di cronaca va detto che prima di lui e per altri motivi, a dare le dimissioni nel Novecento, era stato l’Amministratore apostolico Alfredo Peri Morosini (nominato il 28 marzo 1904, rinunciò il 29 dicembre 1916).

Dopo il Vescovo Ernesto, la scelta di Giovanni Paolo II cadde su don Eugenio Corecco,

di cui il Papa aveva potuto conoscere la grande preparazione e le intuizioni nella riforma del Diritto canonico. Ricordo la prima intervista per “Famiglia Cristiana”, appena nominato: un’immagine di freschezza, di slancio, di saldezza, nelle radici e lungimiranza nelle prospettive spalancate sulla modernità ormai in piena dilatazione. Trasmise l’entusiasmo del suo sì a Papa Wojtyla. Corecco fu nominato il 5 giugno 1986, consacrato il 29 giugno dello stesso anno, edificante e compreso da tutti nell’esemplare magistero del tempo ultimo della malattia. Morì il 1° marzo 1995.

Dopo di lui, don Giuseppe Torti,

già Vicario generale della Diocesi. Una cronaca annunciata. Anche Torti avrebbe preferito rinunciare. Eletto il 9 giugno, consacrato il 10 settembre del 1995, restò in carica fino al 25 gennaio 2004, giorno in cui fu consacrato Vescovo Pier Giacomo Grampa (il rettore del Papio fu nominato il 18 dicembre del 2003). Torti, che aveva annunciato le dimissioni per raggiunti limiti di età all’Epifania 2003 (le presentò poi ufficialmente il 1° febbraio), si era ritirato a vita privata al Paganini Re di Bellinzona nell’agosto del 2003. Morì il 14 marzo 2005. 

Bisognò aspettare quindi dal 1° febbraio fino al 18 dicembre per l’annuncio della nomina di Pier Giacomo Grampa,

attesa e data da molti per sicura e già da mesi. Con Grampa, il vento di Pentecoste, con un dinamismo impressionante e un impegno da stelle a stelle, con due anni aggiunti alla sua missione. Dal dicembre 2013 il Vescovo emerito risiede all’Istituto S. Angelo di Castel San Pietro.

Il 4 novembre 2013 fu dato l’annuncio della nomina di Valerio Lazzeri,

poi consacrato un mese dopo, il 7 dicembre. Una scelta un po’ a sorpresa fatta dentro una terna di nomi forti, di primissimo piano. Il Vescovo più giovane sulla rosa dei miei 6, preparato, buono, colto, intellettuale, chiamato a fare il Pastore dopo le esperienze vissute a Roma e a Locarno, dov’è ancora vivo il ricordo del suo ministero. Stagioni non facili (ammesso che ce ne siano ancora), aggravate dalle circostanze generali e da alcune locali, come la chiusura del GdP, deragliamenti sessuali e comportamentali di tre preti). Le chiese chiuse per la pandemia sono state un tormento inimmaginabile nel cuore di chi ha dovuto guidare la Diocesi. Da mesi nell’aria, l’ufficializzazione della rinuncia è giunta il 10 ottobre in Curia, in un clima di sofferenza palpabile, in primis del Vescovo Valerio, molto provato anche visibilmente.

La responsabilità dell’episcopato nel tempo della postmodernità

Un “vortice di dolore” squarciato dalla gioia del mattino di Pasqua

Ciascuno dei 6 Vescovi che ho conosciuto ha portato ed espresso la sua personalità, il proprio riconosciuto e riconoscibile carisma. Ma è difficile leggere in quello che passa dentro, nell’animo. Ognuno ha il suo silenzioso e nascosto Getsemani, che è l’Orto dell’Uomo, delle confidenze estreme. Cogliere gli affanni di una fatica, che ciascuno sente, vive, soffre a modo suo, spesso nella solitudine. Ricordo una definizione plastica dell’arcivescovo di Milano, Cardinale Giovanni Colombo che definì ogni episcopato “un vortice di dolore”, individuandone alcune chiavi di spiegazione. «Ogni cosa che sa di dominio – disse – non è più sopportabile. Neppure nel campo spirituale…». E fra le colpe più gravi della comunità, già allora l’Arcivescovo aveva colto la tendenza a «pensare che la ragione sia la misura di tutto».

Il successo ha molti padri, ma l’ora delle scelte dure, talora anche dolorose, della ricerca di soluzione a problemi complessi, delle decisioni scomode scocca quasi sempre orfana. 

Sono innumerevoli e in continuo aumento le sollecitazioni che giungono a un Vescovo, chiamato a far fronte in fretta ad ognuna di queste, perché la società va veloce ed esige risposte rapide. Come tenere il passo e soprattutto come salvaguardarsi per non farsi sommergere dai flutti, questa è l’equilibrio di cui dotarsi in abbondanza.

Ho chiesto una dritta a un acuto intellettuale che è anche Pastore d’anime da decenni, mons. Pietro De Luca, molto stimato dall’editorialista e scrittore Gaspare Barbiellini Amidei (“Corriere della sera”).

De Luca è risalito a Salomone che, «quando diventa re di Israele, esprime davanti a Dio una costatazione: “Sono un ragazzo, non so come regolarmi”. E formula una preghiera: “Donami un cuore docile”. La richiesta piace a Dio che gli spiega anche la necessità di avere un cuore docile: gli servirà per fare discernimento nell’ascoltare le cause».

Non è poco per un ragazzo saper pregare così. «Si direbbe – spiega De Luca – che ha compreso in un solo colpo l’esistenza di almeno tre protagonisti di ogni avventura: io, Dio, gli altri. E poi quel difficile mestiere che è fare discernimento, una parola che Papa Francesco ha sdoganato e immesso efficacemente nella riflessione corale, a molti livelli».

Ogni pastore d’anime – ragazzo o uomo maturo che sia – è un soggetto che viene comunque dal passato, vive un presente, ed è proiettato nel futuro. «La prima virtù che gli si chiede – continua De Luca – è l’equilibrio. La sua prima esplicitazione potrebbe essere quella di saper stare con gli altri, riconoscerli, amarli in un sapiente e delicato ascolto. La postura è chinarsi, per fugare immediatamente la tentazione di collocarsi altrove: sopra, per esempio; ma anche di lato o nell’indifferenza e nell’estraneità. Nella realtà è giusto che si presenti con dottrina sicura e attitudine a leggere i segni dei tempi. Costituiscono l’attrezzatura di cui necessita».

Mettere nello zaino la volontà di visitare le periferie dell’uomo

Nelle risorse da mettere nello zaino occorre riporre poi quello sguardo ampio, capace di visitare le periferie del mondo e degli uomini e di includere, prediligere il bello e il buono che sovente giungono dai poveri e dai semplici.

Ancora De Luca: «In un mondo che ha già troppi attori, troppi protagonisti cerimoniosi e ragionieri e contabili, al Pastore d’anime giovano più la sobrietà e quella capacità d’indugiare negli angoli della terra e sostare nella compagnia degli uomini. Non è più tempo di riflettori puntati e di protagonisti luccicanti. C’è più necessità di contadini pazienti che fermino la speranza in quel patrimonio di umanità che rischierebbe di essere rottamato prima ancora di entrare nella festa della vita. Per vivere e testimoniare la differenza cristiana, sarà necessario non tanto sottolineare le altrui deficienze, quanto offrire la gioia di un messaggio che ne dà senza toglierne».

Un Vescovo oggi è chiamato soprattutto e sempre di più a fare il mediatore. Non solo, ma deve occuparsi non più della pecorella smarrita, ma del gregge perché oggi sono più quelli che sono lontani dall’ovile – per stare alla metafora – rispetto ai fedeli nelle chiese. Ospedale da campo, come ripete Papa Bergoglio. Quindi dialogo, accoglienza della diversità, stare con gli altri, convergenza sulle cose necessarie, equilibrio e soprattutto ascolto, che significa stare con la gente.

Siamo a 60 anni dall’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, voluto da Papa Giovanni XXIII, oggi Santo. 

Quell’evento fu un segno profetico, un soffio dello Spirito, culminato la sera dell’11 ottobre nello storico discorso della luna. «Non ho mai visto un pessimista giovare a qualcosa», diceva Roncalli, precursore di molte istanze che siamo andati vivendo e anche soffrendo. Ma sempre deve aleggiare la positività. Resto sempre affascinato e ammirato di un traguardo alto, una vetta ardua ma alla quale non dobbiamo stancarci di tendere: “Al servizio della vostra gioia”. Dovrebbe essere un impegno personale per ogni persona: ma nei tempi che stiamo vivendo dopo quasi tre anni di covid sulle spalle, con il cataclisma che è stato per tutto il pianeta, da ogni autorità e ancor più dagli uomini della “Buona Novella” ci aspettiamo semine di speranza, di fede, carità e di incoraggiamento e sostegno nel cammino in salita di tutti i sacrosanti giorni della vita.