Beati i poveri. E i ricchi?

Beati i poveri. E i ricchi?

Una riflessione a partire dal Vangelo di Matteo


Era un ricco possidente, mentre il povero attendeva alla porta e mangiava le briciole. Il ricco finì all’infermo; il povero in paradiso. Era un ricco possidente e voleva riposare dopo che i granai erano pieni. Il giorno dopo non sapeva che il Signore gli avrebbe chiesto la vita. Era un ricco possidente e, quando il Signore Gesù gli chiese di mollare tutto, lui rifiutò. Il Signore Gesù disse allora che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli. 

A rileggere il Vangelo sembra che Gesù ce l’abbia con i facoltosi o che la ricchezza sia un freno alla santità, se non un impedimento per entrare nel regno dei cieli. 

In realtà, Gesù professava qualcosa di diverso e proponeva un discorso concentrato sul cuore, sullo spirito. E ce lo dice il Vangelo di Matteo (6,24): “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”. Una scelta, insomma, che determina conseguenze chiare: se ci si affeziona alla ricchezza, si odia Dio; se si ama Dio, si sta con Lui. 

L’attaccamento alla ricchezza si declina, secondo il Vangelo di Matteo, in varie sfaccettature. “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?” (Matteo, 6,24). 

Dal discorso di Gesù emerge però un concetto chiave: la preoccupazione per la vita. Uno stato emotivo che Gesù riassume in tre aspetti: il corpo, i vestiti, il mangiare. La preoccupazione per la propria sussistenza crea affanno, dolori, pianto perché toglie la pace. E se la preoccupazione prende troppo spazio, essa crea ansie che tolgono l’unica cosa necessaria: Dio. E quando la preoccupazione è per il corpo, l’uomo sa arrivare a compiere “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (Galati, 5, 19-21).

Ecco perché Dio si fa trovare proprio nella povertà, che il Vangelo di Matteo definisce “povertà in spirito” (5,3). Se si riconosce che Gesù è il padrone della vita e della morte, come anche se si accetta di aver sempre bisogno di Lui nella nostra vita – “pregate incessantemente” dice Paolo ai Tessalonicesi (1 Ts, 5,17) – e se si cerca la Sua volontà, è proprio allora che si può realmente vivere in Dio. 

Papa Francesco ci ha spiegato l’anno scorso (Udienza 5.2.2020), che “lo spirito, secondo la Bibbia, è il soffio della vita che Dio ha comunicato ad Adamo; è la nostra dimensione più intima, diciamo la dimensione spirituale, (…) quella che ci rende persone umane, il nucleo profondo del nostro essere. Allora i “poveri in spirito” sono coloro che sono e si sentono poveri, mendicanti, nell’intimo del loro essere”. Insomma, una declinazione a Dio che ci fa stare… da Dio (permettetemi il gioco di parole), perché aperti alla vita e alla carità. Ma non solo. E lo diciamo senza mezzi termini, nel nostro intimo e con Gesù: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Matteo, 5,3).