Dalla gioia della maternità al dolore della croce

Dalla gioia della maternità al dolore della croce

Può il dolore essere “maestro di vita”?


Un tema difficile, che ci turba profondamente e può anche farci dubitare della nostra fede: la generatività del dolore. Ricordo l’omelia che il cardinale Martini tenne per le esequie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso crudelmente dalla mafia con la sua giovane moglie in attesa di un bimbo nel settembre 1982. Ecco le sue parole: “Non siamo qui di fronte ancora una volta al seme, come quello del corpo del Signore Gesù, che, seminato nella terra della morte, porta frutto nella vita e per la vita? Qui ci sono due scelte: o la speranza o la disperazione”.

Sgomenti, impotenti, arrabbiati di fronte alla morte di un giusto, l’unica nostra salvezza è pensarlo ancora indomito a seminare amore dalla terra dei morti. E proseguire fedeli ai valori che aveva testimoniato. 

È un raffinato biblista come il Cardinale Ravasi che nel suo Mattutino “Il dolore come maestro”, cita il poeta Alfred de Musset: “Nulla ci rende così grandi come un grande dolore”. Ravasi ci ricorda che le persone care che ci lasciano sussurrano sempre un’ultima frase: “Vivi per me!”.

C’è sempre un’eredità da raccogliere e far continuare. 

Scriveva Roberto Assagioli, il medico ideatore della “Psicosintesi”, molto attivo tra Italia e Svizzera nella prima metà del secolo scorso, che aveva perso il suo unico figlio a causa della tubercolosi: “Collaboriamo con l’inevitabile, consideriamo questa situazione, e in generale tutta la vita, come una scuola e un campo di apprendimento in cui è possibile per noi imparare e sviluppare nuove facoltà.”

Assagioli aggiungeva: “Se aveste saputo come soffrire, non avreste sofferto così tanto”; il dolore può cambiare, se gli si toglie l’ostinazione della lotta e del tormento. Soprattutto, aiuta la certezza che chi soffre è sempre innocente.

È del cristiano la capacità di attraversare il dolore con nel cuore l’attesa di un’alba: “Il sudario delle tenebre sta per ritirarsi e per lasciare spazio al dispiegarsi del manto della luce sul creato” (Ravasi, Mattutino).

Ed è sempre Maria, la “stella del mare” come la vuole una delle sue etimologie, che conduce ogni marinaio fuori dalle tenebre della notte. Occorrono tempo e pazienza, ma anche con il dolore si può tessere la stoffa della gioia. 

C’è un filo ininterrotto di vicende umane in cui la preghiera a Maria ha consentito di tramutare il dolore in bellezza, una continuità che ci accompagna da duemila anni e unisce le generazioni di ogni parte del mondo. Maria non è solo la Madre adorata nei santuari cristiani, è venerata anche dai musulmani, che la chiamano Mariam e la ritrovano citata 72 volte nel Corano, come Madre di Gesù (che per i musulmani fu solo un grande Profeta).

C’è una doppia ritrattistica di Maria: la Madre col bambino, maternità trionfante, e la Madre presso la croce, pietà dolorosa. La tenerezza delle divine Madri ci rivela come gioia e dolore siano   inseparabili: “Essi giungono insieme, e quando l’uno siede con voi alla vostra mensa, ricordate che l’altro dorme sul vostro letto” (K. Gibran).

Ma il cristiano sa che “Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”. 

E se qualche volta la felicità si scorda di noi, noi non ci scordiamo della felicità!