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E andare alla ricerca di noi stessi?
Corsa vorticosa verso il futuro e superficialità di radici nel presente
Un anno che si chiude e un altro che si apre: il tempo che scorre, anzi più propriamente “corre” sempre più vorticosamente suggerisce riflessioni e interrogativi sui cambiamenti già intervenuti e su quelli in atto, su chi eravamo e come si viveva e su quelli che siamo diventati nella modernità che è già “post”. Ci sono di mezzo i tratti della nostra identità.
I paesi dell’arco alpino hanno vissuto per secoli immersi nella civiltà contadina, respirandone in profondità le atmosfere, con i pochi cambiamenti che la contrassegnavano. È un tempo lungo protrattosi per quasi un millennio, il Medioevo, compreso tra due emisferi: l’Alto Medioevo (dal V secolo al 1000) e il Basso che si distende fino al 1492, l’anno della scoperta dell’America.
La più illustre medievista contemporanea, la storica Chiara Frugoni (mancata il 10 aprile 2022), ha messo a fuoco molto bene i tratti caratteristici di questo periodo. E planando con la sua ambientazione fino al Novecento, ha posto in risalto l’accelerazione sempre più veloce nella staffetta dalle stagioni dell’aratro a quelle del trattore. Sono 70 anni di progressi continui, che impressionano se raffrontati con il passato prossimo. Ci troviamo davanti – ha scritto la Frugoni – «a paesi rimasti immobili fino agli anni 50, quando il benessere ha cancellato l’antica vocazione agricola che alcuni storici fanno risalire al Medioevo, ha mutato le case, il paesaggio, la mentalità». Ciò che si sapeva, nasceva fra le pareti di casa e della scuola e poco oltre, anche perché il vivere aveva il perimetro del paese, al massimo della valle.
In buona sostanza, si cresceva tutti con una scala di riferimenti maturati e con saldezza acquisita nello scorrere dei secoli: e quasi di colpo ci si è ritrovati con metri temporali sempre più corti e dal post-informatico si è già arrivati nelle “infosfere”, termine che sta a definire l’insieme dei mezzi di comunicazione e delle informazioni che questi diffondono. Indicativa a tale riguardo anche la parola-chiave del 2022: permacrisi, che significa «crisi permanente caratterizzata da un susseguirsi e sovrapporsi di emergenze».
Internet ha cambiato il mondo e seguita a farlo oltre ogni capacità di immaginazione. Non dimentichiamo che uno dei fattori – forse il più decisivo – nell’evoluzione dei rapporti, del costume e dei comportamenti su scala planetaria è stata e rimane la comunicazione, con il suo potere omologante. Non è un caso se il sogno di una moltitudine di adolescenti e giovani è quello di fare gli influencer.
C’è un’Elisa (omissione scelta per il cognome), ventenne milanese che straripa sui social, addirittura come “professoressa di cörsivoe”. Sull’onda di TikTok e YouTube ha raggiunto il milione di followers, cifra destinata a lievitazione naturale e scontata.
Se non c’è platea, non c’è storia
La comunicazione digitale, quale che sia il contenuto, è basata sulla visualizzazione e sulla condivisione. Se non c’è platea, non c’è storia: evidente che in molti fenomeni massmediatici del presente, esiste un pubblico che segue e alimenta il corso d’acqua.
Alcuni esempi:
- Benedetta Rossi, una placida massaia marchigiana, ha la bellezza di 7,5 milioni di seguaci, che nel frattempo avranno superato gli 8 milioni. La sua pagina (Facebook, Instagram, canale YouTube, ora persino un canale TV) pubblica ogni giorno ricette di cucina, con video tutorial che insegnano come fare. E riescono bene…. tanto che gli sponsor (nomi di primo piano nelle pubblicità quotidiane di massa sull’alimentazione…) l’hanno resa ricca. Poi la senti parlare e ti metteresti a piangere, ma intanto naviga a gonfie vele;
- un’altra testata con il vento in poppa e con deragliamenti grammaticali continui fa 90 mila like e ha pure la fortuna di immancabili sponsor che foraggiano;
- chi dei nostri nonni avrebbe mai pensato alle criptovalute e al denaro virtuale che fa perdere anche la trebisonda ad alcuni pronti a investire sul denaro che in teoria non esiste ma fa sognare? Va di moda proprio questa dimensione felliniana, nel senso di onirica, con concretezza di adesioni.
D’altra parte ha ragione un lucido critico come Aldo Grasso quando spiega che «i media siamo noi (…) ed è inutile dare la colpa ai social, alla mania narcisistica di dover certificare la nostra giornata con foto, video, messaggi» e la stessa tragedia «diventa abitudine per assuefazione, per indifferenza. La rete è il nostro nuovo ambiente di socializzazione, “luogo” in cui impariamo a comportarci, a divertirci, a soffrire. Persino a filmare un omicidio».
Anche la felicità, che sposta di continuo i suoi recapiti, forse sta mutando i propri connotati. Un nostro giornalista, Alfredo Carcano, fu il primo in assoluto a leggere la temperatura sul termometro dei mutamenti geologici. Quarant’anni fa scrisse che uno shopping center di confine stava sostituendosi a vista d’occhio a negozi e botteghe di paese ma anche a chiese, oratori, sagrati, teatri come nuovo punto di incontri e aggregazione. È un continuo andare oltre. Sempre “oltre” tutto. Ragazzi e adolescenti, in barba a ogni divieto, riescono a ordinare bevande alcoliche, recapitate a domicilio senza alcun problema, grazie alla Rete che pensa e provvede a ogni consegna. Si auspicano controlli di identità e leggi più severe per i rivenditori via web, intanto però…
La vita immaginaria
Con plastica raffigurazione di futuro imminente, forse già tra noi, il “Corriere della Sera” ha scritto che siamo alla vita immaginaria «in cui ci illudiamo di poter fare accadere le cose che ci sono sfuggite nella vita vera». Conclusione di sarcastica amarezza: «Se sarà una soluzione, o l’ultima trappola, lo scopriremo solo vivendo. Virtualmente».
La filosofa Lina Bertola, di Lugano, figlia di Ketty Fusco e Francesco, padre della riforma del mondo degli apprendisti negli anni 70 nel Ticino, annota che «la nostra civiltà dell’immagine esaspera ma insieme tradisce la potenza del vedere. Vedere, non va dimenticato, vuol dire avere un’idea. Molto spesso solo guardiamo, aspettando di essere guardati. E dell’ascoltare come intima esperienza del mondo che cosa ne abbiamo fatto? L’abbiamo certamente coltivata attraverso il piacere che ci offre la musica. Ma il suono originario, quello dell’incontro con noi stessi, facciamo fatica a sentirlo e ad ascoltarlo. L’orecchio non sa ospitare il mondo, non il vento, non il corpo, non il suono della parola dell’altro, con la sua verità».
Famiglia di una volta, in genere con numerosi figli. Si viveva spesso di fatiche, sacrifici e anche stenti, ma si respiravano le stagioni in un clima di diffusa serenità. Non si conosceva l’inverno demografico.