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Fate questo in memoria di me
Il dono dell’ultima cena che si perpetua
Dio continua ad educarci al suo mistero di amore e di comunione. Il «segno» che Gesù ha lasciato alla comunità che si è andata costituendo attorno a Lui e al quale è più affezionata è proprio il «segno» dell’ultima cena: Gesù «si dà in cibo» perché non manchi a noi l’energia per vivere bene.
«Si dà in cibo»: è il gesto più concreto e più visibile che Gesù poteva inventare in risposta alla nostra fatica a comprendere. (…) È patrimonio della Chiesa la ricchissima riflessione sui molteplici rimandi dell’Eucaristia: stare insieme, condividere, fare festa, nutrirsi, solidarizzare, accettare il sacrificio di sé come segno di amore e di donazione, perdersi in funzione della vita altrui, attingere energia, rinvigorire le forze, fare unità, diventare «chiesa», trasformarsi ed esprimersi come «famiglia». E l’elenco potrebbe continuare. Tutto ciò, leggendolo su un duplice livello, sempre in gioco: in riferimento a Dio, in riferimento agli altri. Il «segno» dell’Eucaristia è per eccellenza il gesto di «comunione» tra Dio e l’umanità (e viceversa) e all’interno della stessa umanità (come naturale conseguenza).
Ritengo bellissimo e insieme inquietante l’insistente richiamo: «Ricordati! Non dimenticare!…». Quanto siamo facili a dimenticare ciò che Dio ha fatto perché fossimo in relazione familiare con Lui e di conseguenza diventassimo più «familiari» tra noi. Quanta tragica amnesia accompagna la nostra esistenza! Di questa «memoria corta» vorrei toccare un aspetto che connota drammaticamente la nostra cultura, anche come cristiani «praticanti».
Anche tra i tanti cosiddetti «fedeli» è diffuso un peccato di cui troppo spesso non segnaliamo neppure l’evidenza e contro il quale non educhiamo abbastanza. È il male della presenza «fisica» alla celebrazione della Cena del Signore e la disaffezione a «fare comunione». Molti cristiani partecipano alla Messa e non «fanno la comunione». Sono presenti in una chiesa, all’interno di una «famiglia» che Dio si raduna intorno e alla quale parla e alla quale dice: «Fai comunione con me», ti invito a «incontrarmi» e a questo invito molti, astenendosi dal «fare la comunione» è come se dicessero a Dio: «Non ti scomodare: non mi interessi. Faccio da solo. Faccio a meno di Te. Non ho alcun bisogno di stare in comunione con Te». Non fare comunione, nel corso dell’Eucaristia, è dare un segno chiaro e visibile di «esclusione» da Dio e da chi gli appartiene. Quanto siamo stati educati ed allertati per non cadere in questo terribile peccato? Quanti se ne confessano? O forse continuiamo ad aleggiare – noi cristiani – in un pigro e tranquillizzante «ateismo», che manifestiamo con evidenza addirittura stando in chiesa.
Per comprendere la gravità di questo inconscio (ma grave) atteggiamento, avremmo bisogno di maturare ulteriormente un altro aspetto della «Comunione». Lo sintetizzo: non siamo noi a «fare comunione» con Dio (anche prendendo chilometri di rincorsa le nostre forze non ci spingerebbero mai a raggiungere Dio per incontrarlo), ma abbiamo bisogno di convincerci che è Lui a prendere l’iniziativa di incontrare noi. La «comunione» è Dio a farla. Noi rispondiamo soltanto con il nostro «sì»: facendo la comunione. Diciamo la nostra disponibilità a lasciarci conquistare da Lui. Ci apriamo al Suo dono. Questa è la comunione. ( *sacerdote salesiano – pubblicato su “Toscana oggi”, 29.05.2005)