Forti ricostituenti per l’idea di “aver cura”

Forti ricostituenti per l’idea di “aver cura”

Forti ricostituenti per l’idea di “aver cura”

Istruzioni sul come aiutare il prossimo, irradiate da un eremo


 “I care”: due parole, un universo di significato per ciascun uomo. Stanno per “avere a cuore”, “interessarsi”, “prendersi cura”. Don Milani le voleva applicate alla scuola, il laboratorio della società del futuro, di ogni futuro, punto di partenza per crescere, migliorare, estendere poi l’impegno a tutto il percorso del vivere.
Che idea abbiamo dell’aver cura degli altri, del prossimo, chiunque sia, dalla prima persona che incontriamo per strada e per la quale a volte ci costa fatica persino il sussurro di un “buon giorno” o di un “ciao”? E come ci rapportiamo a questa realtà che ci interpella, oggi, mentre ancora stiamo attraversando la lunga bufera del covid, che ci ha stravolto la vita?
Ancora non sappiamo “chi” siamo diventati per tutto quello che ci si è rovesciato addosso, per quello che abbiamo dovuto subire, per le limitazioni imposte, per la struggente nostalgia che abbiamo del riconoscerci, ma in parallelo anche della diffidenza che le diverse declinazioni del confinamento ci hanno inoculato. Volenti o nolenti le abbiamo davanti ogni giorno, senza aver ancora trovato la risposta giusta nei nostri comportamenti, nelle relazioni sul lavoro, nel tempo libero, insomma nella società in cui ci muoviamo.

Dentro la spirale
del “Sì, però… e se poi?”
Diciamo pure, senza troppe perifrasi, che la “cura” è diventata una salita se non più dura certamente più complessa da affrontare. Il cuore ha i suoi slanci d’istinto e di umanità, ma la ragione e tutto il frastornante uragano di informazioni di questi ormai quasi due anni di pandemia, hanno moltiplicato dubbi, incertezze, cautele, le prudenze (se vogliamo essere eleganti nel linguaggio). Si vorrebbe, ma scatta quasi immediatamente la molla del “sì, però… e se poi?” anche nei meglio intenzionati e predisposti.
Si sono fatte vaccinazioni di massa, c’è il green pass di una certa salvaguardia, ci sono le mascherine, i distanziamenti, l’uso a oltranza di disinfettanti, e tuttavia il rischio incombe, ci accompagna e ci perseguita come un tarlo, viste le varianti del virus con tutti gli interrogativi al seguito. 
Non è facile “curare” e “curarsi” degli altri in questa nebbia che ci avvolge, speriamo non troppo a lungo. Il fronte è ancor più diviso davanti al Rubicone da varcare. In decine di interviste a una variegata schiera di addetti ai lavori ho sentito di tutto e di più, raccolto pareri pro e contro, decisi o sfumati, posizionati o possibilisti su “noi” e la “cura” che sentiamo e mettiamo in atto per gli altri. 
L’approccio più positivo e interessante al pianeta-cura in tempo di covid l’ho avuto – e pare quasi un controsenso – in un convento dove vivono quattro eremite, le “Allodole di San Francesco”, a Campello sul Clitunno, con vista sulla pianura spoletana. Sorella Daniela Maria Piazzoni, responsabile della piccola comunità, è partita da lontano. “Sicuramente – ha esordito – tutti hanno avuto modo di riflettere su quello che vale o non vale nella vita. Da molte testimonianze dirette sappiamo dell’impegno generoso e concreto di molti giovani che si sono messi a disposizione degli anziani e delle famiglie che non potevano uscire per fare la spesa o per altre contingenze di quotidianità. Gli esempi di impegno sono stati innumerevoli e ne abbiamo avuto riscontro da diverse persone con le quali siamo in contatto. E queste sono storie di bene, di cura prestata in molteplici modi agli altri”.

Ostacoli sulla strada
del creare legami
La cura nell’interpretazione di un cristiano, dev’essere lo sforzo di creare legami di unione, di fratellanza. Scendendo nel concreto, Sorella Daniela Maria ha esemplificato in questi termini: “Ci troviamo sempre più confrontati con emergenze che sono diventate globali: 
1) contro una pandemia come il coronavirus si deve “aver cura” di remare uniti; 
2) le risposte ai flussi di migranti non possono essere i muri e le chiusure dentro i propri confini, lasciando che siano sempre gli altri a farsi carico dell’accoglienza. Anche questa deve essere una nostra cura
3) io spero che ci siano state conversioni di cuori. So per certo che molti in questo lungo tempo sospeso hanno ricominciato a pregare, hanno ritrovato il gusto – sì, proprio il gusto – di riprendere in mano il Vangelo, di mettersi davanti ad una prospettiva più grande, che non è misurata soltanto su sé stessi. E anche questo è un modo di avere cura: quanto meno di sé stessi”.
Volendo, possiamo radiografare anche la nostra quotidianità: persone che prima si incontravano all’ascensore di casa e si ignoravano, con il “covid” sono arrivate a fare la spesa l’una per l’altra, a parlarsi dalle finestre, a raccontarsi preoccupazioni e speranze, ad avviare qualche relazione di vicinato. Un minimo di desiderio di rapporti da porta a porta resterà e continuerà, andando oltre la superficialità. La “cura” ha un orizzonte molto esteso.
Per le eremite di Campello l’elenco di samaritani – quindi di donne e uomini che si prendono cura – in quest’emergenza ha visto molti individui impegnati a curare negli ospedali, nelle case per anziani, ovunque, dalle panetterie alle farmacie, tutti mobilitati per aiutare, costruire speranze, rimotivare il prossimo alla fiducia. Se non sentiamo questo destino comune adesso, dobbiamo chiederci quando lo capiremo.  
Ed ecco una vetta luminosa indicata al “prendersi cura” da un eremo che si mostra più addentro al vissuto rispetto a noi che ci riteniamo comunque intrecciati con “gli altri”. Spiega Sorella Daniela Maria: “Sta a tutti diventare migliori. Se tanti diventano migliori, il mondo non potrà che beneficiarne. Credo che un tale cambiamento passi dal mio, dal nostro cuore e dunque c’è da fare. Vedo, sento e comunico con molta gente che ha scelto di aiutare, che si è mossa per dare una mano a chi era in difficoltà. E quando non poteva farlo di persona, ha donato con generosità perché si provvedesse alla spesa di chi non se la poteva permettere. Ciò è avvenuto molto più di quanto si sia raccontato. È la cura nella sua versione di concretezza”.

Un’utopia vivere da sani 
in un mondo malato
Traducendo ulteriormente: non dovrebbe essere più possibile disinteressarsi del vicino che è solo, non sta bene, può avvertire l’angoscia dell’abbandono. Significherebbe non imparare niente dalla storia e men che meno dal nostro essere cristiani. Se il virus continua a diffondersi ed è arrivato dappertutto, qualcuno può vivere da sano in un mondo malato? Cosa pensa di fare? Da chi si farà aiutare un domani chi sta chiuso nel suo guscio? L’isolamento è assurdo, disumano.
Nel loro eremo, le “Allodole di San Francesco” hanno fatto questa applicazione della cura del prossimo: “Noi Sorelle abbiamo passato ore e ore, giornate intere al telefono ad ascoltare le persone più sole, gli anziani, quelli che stavano male in casa e avevano bisogno di parlare e di qualcuno che ascoltasse, quelli che avevano un congiunto in ospedale e non potevano fargli visita. Ci siamo sforzate di essere il più vicine possibile a tutti, tenendo un dialogo anche con le famiglie del paese”. 
Se è possibile “aver cura” degli altri con pensieri, parole e opere da un eremo, forse può maturare anche in noi qualche idea di “cura”, estesa alla dimensione di dare e vivere per “qualcosa”.