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Le nuove frontiere tracciate dal virus
Avvicinati dalla tecnologia, allontanati dalla pandemia
Le distanze si sono polverizzate, oggi si vive una mobilità vorticosa, sono sparite molte categorie, ad esempio lo spartiacque tra giorno e notte; tra giorni feriali e festivi. C’è un’omologazione senza confini, si veste più o meno tutti allo stesso modo, da Pechino a New York, la moda detta le scelte, anche le più bizzarre… Il mondo si è fatto villaggio e paradossalmente sono andati persi molti tratti identitari.
Anni or sono – bisogna tornare indietro di 30, un soffio che pare un’eternità – David Saxon, rettore dell’autorevole MIT Massachusetts Institute of Technology di Cambridge pronunciò una frase monumentale: “Stiamo andando veloci, ma non sappiamo dove”.
Un nome di rilievo nel campo della comunicazione e della cultura, Furio Colombo, commentò con intelligenza che “stiamo andando veloci con i nostri strumenti, e avanziamo alla cieca con le nostre coscienze. Noi, i Paesi ricchi, siamo i meno perdonabili, in questo mondo in disordine, perché del molto che abbiamo non stiamo facendo niente. Non dico per il Sudan o il Bangladesh, non stiamo facendo niente per noi”. Ci sono stati molti disastri definiti “apocalittici” dai mass media: non era ancora arrivato il covid a stabilire il nuovo primato universale delle catastrofi sulla Terra. In questo anno e mezzo da quando è scoppiato alle nostre latitudini, il misterioso virus deflagrato dalla Cina, a sua volta velocissimo nelle varianti, ha stravolto le abitudini, i comportamenti, la quotidianità. E sta modificando fortemente anche i caratteri. Tra qualche anno gli specialisti in materia, quando l’avranno accertato, ci diranno come e quanto siamo diventati diversi – per qualcuno, più altruisti e solidali; per molti, più diffidenti – e forse riusciranno anche a individuare “chi” siamo diventati.
Una cosa è certa: tecnologia e scienza, idolatrate come divinità massime, hanno rivelato la loro vulnerabilità. Stiamo ancora vacillando per la botta. E ci interroghiamo su velocità, distanze, vicinanze, lontananze. Nessuno delle folte schiere di astrologi e scrutatori dell’avvenire aveva previsto il lungo confinamento che ha imposto vicinanze coatte per mesi con tutti gli effetti e le conseguenze collaterali. Una infinità di viaggi ha dovuto essere annullata, rinviata: addio spiagge esotiche, vacanze avventurose. L’omerico Ulisse, icona del viaggiare e del conoscere, ha dovuto familiarizzare con prolungate quarantene. Uno sconquasso planetario, uno tsunami che s’è abbattuto su tutti i continenti e l’umanità si è ritrovata di colpo fragile, con una miriade di certezze polverizzate.
All’indomani dell’11 settembre del 2001, dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York, si conclamò globalmente che la vita dell’intera umanità non sarebbe stata più la stessa: e infatti è iniziata l’era della grande apprensione – senza frontiere – dei fondamentalismi con il loro indotto di sanguinose barbarie, stragi, stermini, genocidi. Adesso, con lo scoppio della pandemia dilagata da Wuhan, siamo ostaggi totali di un avverbio – “forse” – costretti a coniugare un verbo – “sperare” – vitale come l’ossigeno che respiriamo. Chi se la sente di scommettere sul nuovo approccio alle distanze? Forse soprattutto loro, i missionari, che hanno il coraggio di muoversi per la Buona Notizia, di cui è garante Cristo.