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L’era degli scarti
C’è bisogno di un nuovo stile di vita per la cura della casa comune
La casa comune, il nostro pianeta, è esistita a lungo senza di noi. L’homo sapiens è comparso circa 200.000 anni fa. Il “Calendario cosmico” approntato dagli evoluzionisti ci dice che se riportiamo a 12 mesi le tappe dell’arrivo della vita sulla terra, vi sono vissuti solo virus e batteri fino all’inizio di novembre, quando è cominciata la vita pluricellulare; il primo mammifero è uscito il 1° dicembre, i primati a Santo Stefano, l’homo sapiens (cioè noi) alle 23.32 del 31 dicembre! La nostra mente si perde quando deve afferrare la portata di processi globali così lenti e progressivi, ma intuiamo che l’homo sapiens è solo un ramoscello nell’albero della vita, eppure da quando si è insediato sulla terra (la nostra era è detta “antropocene” da antropos, uomo, e cene, suffisso usato per le ere geologiche più recenti) ha saputo trasformarla in un’enorme pattumiera, tanto che lo storico Marco Armiero definisce la nostra epoca come “L’era degli scarti”.
A livello materiale, l’uomo sulla terra è insignificante: rappresenta lo 0,01% della vita: le piante costituiscono l’82% della materia vivente. Il poeta Pietro Berra scrive che ci stiamo “arborizzando” anche noi: “Il nostro successore non sarà un androide, ma un albero. Ci ha guardati sradicare e bruciare i suoi simili per millenni. E ci è sopravvissuto”.
Meno apocalittico il filosofo della scienza Telmo Pievani, che non crede alla possibilità di estinzione dell’uomo: la specie umana è sopravvissuta a catastrofi e a grandissime difficoltà, ce l’ha fatta sempre; occorre però “fare un passo indietro e cambiare direzione rispetto a quella inizialmente immaginata, si deve ammettere che si è presa la direzione sbagliata, occorre adottare un nuovo stile di vita”. Nel suo libro “Il giro del mondo nell’antropocene”, Pievani ipotizza uno scenario ambientato nel 2872, esattamente 1.000 anni dopo il famoso “Giro del mondo in 80 giorni” di Jules Verne. Ovviamente descrive un futuro distopico, dove il riscaldamento globale porterà i mari a innalzarsi di 65 metri: in Europa i Paesi Bassi scomparirebbero, l’Italia perderebbe la Pianura Padana, fuori dal nostro continente la Cina si vedrebbe privata del 20% del suo territorio, sparirebbe il Bangladesh, gli USA si ritroverebbero l’oceano al posto della Florida.
Mentre scrivo scruto il cielo di inizio marzo e mi sembra sia troppo celeste, un cielo già estivo. Mi era capitata la stessa cosa l’anno scorso; poi è arrivata la siccità estrema dell’estate 2022, con ondate di calore e mancanza di acqua, l’erba degli alpeggi bruciata dal sole. Ormai rimangono solo i riti liturgici a scandire il succedersi delle stagioni.
L’invito ad agire si fa pressante, solo un lavoro di squadra può sostenerci di fronte a un compito, quello della transizione ecologica, che appare titanico. È necessario un “contagio” di buone pratiche, che coinvolga anche i governi delle nazioni.
Lo dobbiamo ai nostri giovani, sempre più sovrastati da sfiducia e paura del futuro. Sono loro a pagare il costo più alto del riscaldamento climatico, loro che non l’hanno creato. Ma sicuramente nelle loro teste ci sono soluzioni che noi adesso non riusciamo nemmeno a immaginare.
Ricordiamoci che siamo polvere. Ma anche luce.