Luce di trasfigurazione della speranza

Luce di trasfigurazione della speranza

La lapide rovesciata del Sepolcro: dal Venerdì Santo all’alleluia


Ci sono due parole che hanno dominato il linguaggio in questi due anni e che sono diventate ancora più presenti oggi, quando al covid si è aggiunta l’orrenda e orribile guerra della Russia in Ucraina. Sono le voci del verbo “SPERARE” e l’avverbio “FORSE”. Molti nostri discorsi, scambio di saluti, conversazioni di qualsiasi genere sono – e permangono – sotto questa insegna. Più forte di tutto, in ogni ora, anche la più fosca, è stata e rimane la speranza. Guai se sparisce questa prospettiva dal nostro precario orizzonte. Quando purtroppo qualche filo si è spezzato, perché la fatica del vivere ha avuto il sopravvento sulla volontà di continuare, di resistere, di andare avanti comunque, è sceso il buio totale e lo abbiamo in taluni casi sperimentato nelle traversie di amici o conoscenti. 

Abbiamo un bisogno smisurato, infinito di speranza: dev’essere stato così in ogni era, da quando c’è il mondo e c’è l’uomo. Già i greci dicevano che senza speranza siamo condannati. E del resto proprio la mitologia greca ci ha trasmesso la nascita di questo decisivo valore. Pandora aprì il famoso vaso che Giove le aveva donato con la raccomandazione di non aprirlo e subito si sprigionò una folata di spiriti malvagi con immediata ricaduta sull’umanità di mali e sciagure: dalla malattia alla vecchiaia, dalla follia alla morte, quindi avidità, odio, rancore, invidia, superbia, ira, sofferenza. Tutto il peggio che affligge l’uomo e il mondo divenne un inferno invivibile fino a quando Pandora riaprì il vaso e liberò la speranza come fondamentale consolazione.

Ancor più nella visione cristiana questo tema della speranza è ancorato alla vita e la Pasqua ne è forse il simbolo più alto. È la trasfigurazione stessa della speranza che diventa luce e felicità senza fine dopo l’angoscia del Getsemani e il grido del Calvario. 

Turoldo forgiatore 

di parole tonanti

In febbraio sono stati ricordati i trent’anni dalla morte di David Maria Turoldo: prete, scrittore, poeta che ha cantato la speranza fino all’ultimo giorno, nonostante “il drago” che lo stava impietosamente piegando e lo ha fatto con i tratti della figura profetica, con un balzo dal Venerdì Santo allo squarcio di luce che viene da una speranza irriducibile, capace di vincere la morte con l’amore.

«No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera
è al Venerdì Santo…».

Poi ecco la croce, il sepolcro, la lapide rovesciata, le donne e i due discepoli primi testimoni della Risurrezione di Gesù:

«Tu sei venuto tra noi
per mettere in fuga la morte
per snidare e uccidere la morte.
Anche a Te la morte fa male
per questo sei amico
di ognuno segnato dal male
e ogni male
Tu vuoi condividere».

Nel primo mattino di una lontana alba rosata, durante un viaggio per condividere l’annuncio della rivoluzione di Cristo, in un quadro di chiaroveggenze apostoliche, posi una domanda forte a Turoldo per insaporire la giornata: dovendo scegliere, quale delle tre virtù teologali metti per prima. Il “Covone biondo” (copyright di Luigi Santucci per David) non esitò un attimo: «Non c’è dubbio, la speranza». Del resto, aggiunse, affascinando con i suoi folgoranti annunci di cielo, «la stessa fede è argomento di cose sperate». E una delle sue esortazioni ricorrenti era proprio “aiutiamoci a sperare”. Si atteneva caparbio alla coerenza dei suoi sospiri di Vangelo e fraternità. Davvero un forgiatore di parole tonanti. 

Da un altare di penombre

ma risonante di voci

C’è un’altra ricorrenza che cade il 20 aprile e in cui si commemoreranno i 30 anni dalla morte nel 2023 ed è legata ad un’altra luminosa icona della speranza, il vescovo di Molfetta, Tonino Bello, dichiarato venerabile il 25 novembre 2021 da Papa Francesco.

Anche questo vescovo sentiva lucidamente l’approssimarsi della fine, ma non volle arrendersi e il Giovedì Santo, alla Messa crismale dell’8 aprile 1993, pronunciò un addio che è forse uno tra i più sublimi inni alla speranza. Disse: «Ho preso la parola per dirvi che non bisogna avere delle lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia e dobbiamo sentirle». Poi, rivolgendosi ai ragazzi: «Tanti auguri perché nei vostri cuori ci sia sempre la trasparenza dei laghi e non si offuschino mai per le tristezze della vita che sempre ci sommergono. Vedrete come, fra poco, la fioritura della primavera spirituale inonderà il mondo, perché andiamo verso momenti splendidi della storia. Non andiamo verso la catastrofe. Ricordatevelo». E prima di un commovente «Vi voglio bene», mandò il suo ultimo messaggio alla diocesi: «Vi benedico da un altare coperto di penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci».

Il vescovo Tonino Bello

e “L’ala di riserva”

E sempre a don Tonino, che s’era imposto la fiducia del Buon Seminatore, si deve un’altra splendida metafora sulla speranza, paragonata a «un’ala di riserva”. C’è un vecchio spiritual che dice: «Io ho le ali, tu hai le ali, tutti i figli di Dio hanno le ali”. Chi non si è chiesto in questi due anni di covid e in questa primavera percorsa da fiumi di lacrime e sangue del conflitto in Ucraina, in un cielo solcato dai sinistri bagliori di mortai, bombe e missili, quali ali possiamo metterci oggi per far volare la speranza? Ecco la delicata immagine fatta sbocciare dalla matita verde di don Tonino:

«Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati.

A volte, nei momenti di confidenza, osiamo pensare, Signore, che anche tu abbia un’ala soltanto. L’altra, la tieni nascosta: forse per farci capire che anche tu non vuoi volare senza di noi.

Per questo ci hai dato la vita: perché noi fossimo tuoi compagni di volo.

Insegnaci, allora, a librarci con te.

Perché vivere non è “trascinare la vita”, non è “strappare la vita”, non è “rosicchiare la vita”.

Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del vento.

Vivere è assaporare l’avventura della libertà.

Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come te! Dacci, Signore, un’ala di riserva!».

Ma sulla speranza

si può lavorare sempre

Anche noi, come sempre, se non alimentiamo la fiducia siamo condannati al pessimismo, che è un non vivere. È vero che ottimisti o pessimisti si nasce, così come ciascuno di noi nel suo personale bagaglio porta pregi e difetti, virtù e fragilità, ma è ancor più vero che sulla speranza si può lavorare sempre.

Uno scrittore israeliano, Eshkol Nevo, ha affidato alla carta il suo sentire: «I desideri sono importanti, ma non sono sufficienti. Abbiamo bisogno anche di obiettivi, di amici, della famiglia. E in questo modo ho la capacità di dare speranza agli altri. E posso usare una di queste cose per tornare a sperare, riprendendo la fiducia nel potere delle parole di guarire e costruire ponti». Curiosamente questo scrittore ha confessato di aver acceso il suo interessamento alla speranza nel 1994, «prima di Google. Così andai in biblioteca a cercare articoli sulla speranza. Sapete quanti ne trovai? Nessuno, zero». Non ha precisato in quale biblioteca si sia recato, forse in Israele la speranza ha volato basso se non è riuscito a trovare nulla. Nella Vecchia Casa europea avrebbe avuto molta più fortuna, perché di tenori della speranza c’è un grande e armonioso coro, che viaggia anche molto più indietro di Google e del 1994, con svariatissimi, armoniosi spartiti. Tra i molti interpreti in materia che ho sentito, la voce più sintetica è stata quella del sociologo Francesco Alberoni, che me la sintetizzò efficacemente così: «La speranza è un però».