“Non si viaggia che per ritornare”

“Non si viaggia che per ritornare”

Insegnare la capacità di congedarsi alla vita


Ogni percorso compiuto da un essere umano è un po’ un’Odissea, un tentativo di tornare a casa. In fondo non si viaggia che per ritornare. Ma non si torna mai nella casa che un tempo ci ha accolti e amati, bensì in un luogo che assomiglia alla nostra casa: noi siamo cresciuti e, a ben vedere, anche la casa è mutata. Il passato, scriveva Proust, “è fatto di luoghi astratti. Ciò che li distingue sono le persone con cui hai condiviso quei luoghi. Quando non esistono più quelle persone, non esistono più quei luoghi”. Qui è celato il compito più difficile della vita: acquisire la capacità di distaccarsi dalle persone che amiamo.

Personalmente, conosco solo un modo per svolgerlo, ed è quello di rivisitarle, di tanto in tanto. Solo se celebriamo il dolore delle nostre perdite possiamo ritornare a casa. “E’ sempre dura, quando muore una persona: si apre un buco nel mondo. E noi dobbiamo celebrare questo lutto. Altrimenti il buco non si chiuderà più” (Haruki Murakami). Così anch’io mi ritrovo, a inizio novembre, a portare fiori al Camposanto: “Questi fiori sono un po’ scale verso il cielo…” dice Valerie Perrin nel suo bestseller “Cambiare l’acqua ai fiori”.

E a volte, la sera, mi scopro a guardare con commozione una foto risorta chissà come da un cassetto; I nostri cari ci lasciano, ma non per sempre.

Ora che le giornate si accorciano, la nostalgia ci soccorre. La nostalgia è uno stato d’animo erroneamente svalutato dalla nostra società, che ha tra i must l’imperativo “mai vivere di ricordi”; in realtà dare corpo alle persone che ci mancano è qualcosa che ci mantiene vivi come poche altre cose al mondo. I sentimenti accatastati dentro di noi hanno la stessa legittimità di quelli che proviamo ora. Se lo visitiamo, il nostro dolore non potrà mai annientarci, e anch’esso passerà.

È umano chiedersi quando finirà il buio della notte, del dolore; quasi tremila anni fa il Profeta Isaia, in un brano di un’umanità incredibile (Isaia 21, 11-12), narra di un viandante che chiede a una sentinella: “Guardia! Quando avrà fine la notte?” La Guardia dice: “Sta venendo il mattino. Ma la notte durerà ancora. Tornate e ridomandate. Venite ancora, insistete”. L’importante è tornare, chiedere, insistere. Ogni cammino è un viaggio verso la luce: e la luce torna sempre, basta saper aspettare. 

E poi i confini tra la vita e la morte sono labili; ascoltiamo il poeta Giuseppe Ungaretti, soldato nella Prima guerra mondiale, dopo una notte passata in trincea accanto a un compagno ucciso: “Nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”. Ai miei alunni la spiegavo con le parole del cantautore Luciano Ligabue: “L’amore conta. Conosci un altro modo di fregar la morte?”.

Per ogni giovane che si addentra nelle fatiche del mondo, c’è un educatore che lo accompagna. Ma il bravo educatore sa che il suo compito consiste nell’insegnare la capacità del congedo, la sua opera avrà avuto successo se l’alunno a un certo punto saprà proseguire da solo. E qui mi aiutano le parole di un altro grande cantautore, recentemente scomparso, Franco Battiato: “E il mio maestro mi insegnò quanto è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.