Salute e salvezza

Salute e salvezza

Riflessioni a margine del convegno tenutosi a Lugano l’11 febbraio 2023


Salute e salvezza: queste due parole hanno la stessa radice etimologia, lo stesso prefisso che solleva, allevia, guarisce e quindi agisce sulla persona nella sua totalità, offrendo un effetto benefico, come un balsamo versato sulla ferita aperta anche se nascosta nel profondo di noi stessi. La salute va considerata non solamente come l’assenza di malattia fisica o psichica, così ben definito dall’OMS, ma si tratta di un benessere ampio e completo che faccia stare bene la persona nella sua pelle, nella sua storia e nella società di cui  fa parte. La salvezza, dal canto suo, non può e non deve essere relegata ad un discorso religioso perché la salvezza appartiene al mondo trascendentale che abita in ogni individuo al di là del suo credo religioso. Ed è proprio in virtù di questa co-abitazione della salvezza dell’uomo che il cristianesimo diventa l’interlocutore più credibile di questo rapporto tra la salute e la salvezza, perché si offre come chiave di lettura nell’esperienza vivificante della passione, morte e risurrezione di Cristo, che riassume in sé la salute e la salvezza dell’uomo, anche quando la guarigione non è possibile. Questo preambolo per riportare alla memoria l’importante convegno tenutosi alla biblioteca cantonale di Lugano sabato 11 febbraio 2023, alla presenza dell’autorità politica cantonale e religiosa nel Cantone, ma specialmente con la partecipazione di centinaia di persone sia fisicamente presenti che collegate da casa. Si sono susseguiti al tavolo dei conferenzieri persone scelte ed esperte nell’ambito della salute fisica e spirituale: un medico primario di medicina interna, un sacerdote e medico, due sacerdoti cappellani d’ospedale, due infermiere e una persona malata di cancro che hanno presentato, con le parole dell’esperienza concreta, il loro vissuto ai tempi della pandemia da Covid-19, tempi difficilissimi per tutti, quindi parole per non dimenticare le innumerevoli vittime che nelle prime due ondate hanno sconvolto la società e la Chiesa. Infatti, se da una parte le persone si ammalavano e morivano, la Chiesa ha saputo offrirsi come valido strumento di salvezza attraverso le forme di solidarietà come l’assistenza nei reparti ospedalieri o il supporto telefonico a persone e famiglie colpite dalla pandemia. Si è trattato di una presenza discreta ma incisiva al fianco degli operatori sanitari che, con turni massacranti, fornivano assistenza alle persone più gravemente malate, tanto da dover ricorrere al ricovero ospedaliero. Eppure, per i meno gravi, la filantropia ha saputo muovere cuori e mani di molte persone che si sono messe in gioco per alleviare una sfaccettatura grave causata dalla pandemia che è stata la solitudine ed il senso di isolamento. Dagli interventi dei conferenzieri sono usciti molti sentimenti e tanta commozione: la gratitudine per le persone incontrare e poi decedute, lo smarrimento dei famigliari che non avevano più l’occasione di rivedere i loro cari sia durante il ricovero che, nei casi più estremi, per la celebrazione delle esequie, la fatica del curare senza sapere, nelle battute iniziali, cosa somministrare per evitare il peggioramento del quadro clinico, il senso di impotenza nel voler fare di più ma a che prezzo! Infatti alcuni dei relatori hanno, a loro volta, contratto il virus nel mentre erano impegnati nel servizio “al fronte”. In tutto questo non va dimenticata la dimensione della fede quale vero farmaco d’immortalità e che ha ricordato a tutti noi il valore intrinseco dell’uomo e della sua vocazione alla salvezza e alla vita eterna. Se infatti non sempre è stato possibile guarire (salute), sempre è stato possibile testimoniare (salvezza). Ci si è resi conto che la salvezza non è “proprietà privata” di qualcuno, nemmeno della Chiesa, ma un’offerta credibile a tutte le persone che si lasciano interrogare dalla vita e dalla morte, sapendo che  anche la malattia è un’occasione, una grazia, così come ci ha ricordato mons. Eugenio Corecco nella sua testimonianza del 27.11.1994: “La malattia ci cambia, perché ci fa toccare proprio con le mani la solitudine che abbiamo dentro di noi. Ci sono infatti momenti durante la malattia in cui la persona capisce che in ultima analisi la questione è sua. Nessuno può supplirlo. Nessuno può dire o fare al suo posto. Sente la propria finitezza e da questa finitezza capisce che c’è una sola Persona che può riempirla, perché questa Persona è Qualcuno più grande di lui, è Colui che ci ha dato la vita. Scopriamo che la solitudine è insuperabile dentro l’esperienza umana, non possiamo superare la solitudine personale in nessuna situazione della nostra vita. Sia che ci sposiamo, sia che diventiamo ministri consacrati, sia che ci consacriamo al Signore, c’è un punto della nostra vita in cui siamo sempre soli davanti al Signore e nessuno dall’esterno ci può aiutare al punto da sostituirsi alla nostra persona. Basterebbero queste poche cose per farci capire che la malattia è veramente una grazia. Detto all’inizio può sembrare assolutamente non vero o assurdo, ma dall’analisi di quello che avviene nella nostra persona, l’affermazione che la malattia è una grazia è profondamente vera.”

È stato un tempo difficile e terribile quello della pandemia, ma la risposta generosa che la Chiesa ha saputo dare, senza risparmiarsi e soffrendo accanto ai malati ed ai loro famigliari, rimarrà negli annali come forma suprema d’amore all’uomo e di fedeltà al Vangelo.