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Santa Bakhita: una schiava, figlia di Dio
Quelli che non sono del Signore sono i veri poveretti!
La prima volta che sono stata a Londra ho vissuto una sensazione particolare: mi sono sentita sprofondare in un mare di umanità. Prendevo la metropolitana e mi immergevo in un bagno di colori, di vite, di volti…nei numerosi tragitti quotidiani ero attratta dalla varietà che mi attorniava, e di cui io ero parte. Mi stupiva la creatività del Creatore: non c’era una persona uguale all’altra: dal colore della pelle, alla forma del viso, alla tonalità degli occhi, alle sfumature dei capelli. Uno spaccato di mondialità. Poi proseguendo in questa “analisi sociologica” osservavo le persone, cercando di intravedere la storia della loro vita attraverso gli sguardi o l’espressività: dalla gioia alla tristezza, dalla fatica alla spensieratezza.
La Chiesa, come comunità di fede, è espressione di questa multiculturalità. Come non ricordare la bellissima immagine evocativa tratta dal libro degli Atti (cfr Atti 2,1-21): “Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo”.
La Chiesa è ricchezza di volti, molteplicità di carismi, funzioni e ruoli.
La storia di Giuseppina Bakhita è davvero stupenda perché parla di una vita come crocevia di culture, purtroppo di ingiustizie, ma anche di riscatti.
Nata in Sudan nel 1869, da bambina fu rapita da mercanti e quindi venduta più volte come schiava. Per il trauma subito dimenticò addirittura il suo nome. I suoi rapitori le affibbiarono il nome di Bakhita che significa Fortunata. Quello che era una forma di irrisione diventerà una profezia. Passando attraverso prove disumane, come tra l’altro frustate quotidiane, tatuaggi cruenti (le fecero 114 tagli, non fatti rimarginare mettendo all’interno del sale, procurandole sofferenze atroci), diventerà beata di nome e di fatto.
La sua vita cambiò con l’acquisto da parte del console italiano, che la portò in Italia nel Veneto, e consegnata ad un amico di famiglia, un certo Michieli, che la portò a casa sua, dove fece da governante e babysitter.
Quando la famiglia che l’aveva accolta dovette ripartire per un viaggio commerciale all’estero, Bakhita con la figlia dei Michieli venne affidata all’Istituto delle canossiane di Venezia. Lei in quel luogo si avvicinò al cristianesimo. Dopo qualche tempo, quando “la famiglia affidataria” tornò per riprenderla, lei non volle più seguirli e lasciare il convento. In seguito a varie traversie le venne concesso (visto che era ancora “proprietà” di chi l’aveva comprata!) e nel 1889 acquistò finalmente la libertà.
Decise quindi di sottomettersi volontariamente ad un altro “padrone” che lei chiamò “el Parón”: il Signore. Era rimasta molto colpita dal crocifisso, morto per noi e per la nostra salvezza. Ricevette quindi il Battesimo e gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Poi chiese di diventare religiosa, e le suore canossiane l’accolsero volentieri nella loro congregazione. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1947 a Schio, Suor Giuseppina Bakhita sarà cuoca, sacrestana e aiuto infermiera. Amata da tutti, sempre servizievole, addirittura riconoscente ai suoi rapitori, perché causa indiretta del suo incontro col Signore. Fin quando la salute glielo permise, andò per obbedienza, in giro con alcune sue consorelle, a raccontare la sua vita, come testimonianza di salvezza e misericordia. Parlava solo il dialetto veneto, e quindi il suo racconto di vita venne tradotto in italiano e in parte diventò anche un libro (“La storia meravigliosa”). Bellissime le sue espressioni, di una efficacia unica: «quanto bon che xé el Parón» (“quanto buono è il Signore”), «come se fa a no vołerghe ben al Parón» (“come si fa a non voler bene al Signore”).
Quando la gente la compiangeva per la sua storia: «Poareta mi? Mi no son poareta perché son del Parón e neła so casa: quei che non xé del Parón i xé poareti» (“Poveretta io? Io non sono povera perché sono del Signore e nella sua casa: quelli che non sono del Signore sono i veri poveretti”).
Fu beatificata nel 1992 e proclamata santa nel 2000.