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Una bella grammatica del femminile
Itinerari di ricerca dal libro “Kill Venus!” della filosofa Lina Bertola
Il filo rosso che si stende e segna tutto il lungo itinerario tracciato e proposto da Lina Bertola è avvincente, intrigante e non deve ingenerare l’idea di un percorso diretto a una sola meta, sia pure grande e universale. Le frecce segnaletiche collocate strada facendo indirizzano tutte alla meta dell’accogliere il “femminile” nella nostra vita. E ce n’è un documentato bisogno. Sotto ogni cartello, ci sono molte indicazioni di accompagnamento, per cui il viaggio del libro “Kill Venus!” (ed. Dadò) ha molte tappe e ciascuna ricca di aree di sosta. Un po’ come quelle che alpigiani e contadini fino al passato prossimo avevano sui sentieri che praticavano carichi di pesi d’ogni genere. Punti dove fermarsi, riprender fiato, riflettere e ripartire.
Anche il cammino fra le dense pagine di Lina Bertola impone fermate per riordinare e assimilare quanto letto, per poi avventurarsi nel tratto successivo. I titoli dei capitoli sono a prima vista un po’ professorali e rivelano subito, d’altra parte, l’identità e la storia personale dell’autrice: filosofa e docente di filosofia allo storico Liceo 1 di Lugano e di etica all’Istituto Universitario Federale per la formazione professionale. Guai però a fermarsi davanti agli impegnativi striscioni: l’invenzione del femminile; il graffio del logos, l’identità invisibile, il “femminile tradito e le sue voci, verso nuove e felici fioriture, accogliere il “femminile nella nostra vita”.
Più si avanza e più si è presi dall’esplorazione.
Prima dovuta precisazione chiarificatrice: “femminile” non è parola che qualifichi in modo specifico l’essere della donna. Il significato si estende oltre la biologia e indica in ciò che chiamiamo “femminile” una forma di approccio alla vita. Un concetto alto, che torna spesso, è il significato attribuito al “sentire la vita”: che è prendersene cura, prestarle attenzione, ciò che equivale a apertura e movimento, orientando lo sguardo verso qualcosa, verso sé stessi, gli altri, il mondo. Curare la vita è far emergere quei valori che stanno alla base della convivenza.
La presenza dell’Altro
Un’altra parola che ritroviamo spesso – molto illuminante – è “fragilità”, una condizione che se prima poteva essere sorvolata, ora, avviati a un anno e mezzo di coabitazione forzata con il coronavirus, riguarda tutti e ciascuno ed è multiforme: dalla precarietà al disorientamento, all’ansia, all’angoscia; dal ripiegamento in sé stessi alla diffidenza, alla solitudine. Sballottati fra le ondate di ritorno e le varianti, ci stiamo interrogando: chi siamo diventati? E come stiamo vivendo?
Lina Bertola osserva, indaga, scruta, critica – ad esempio il “tormentone delle cosiddette quote rosa” in politica – si rammarica per l’assenza di una “grammatica della vita”, per “l’incapacità di sentire la presenza dell’Altro”. E il procedere nell’analisi è accompagnato da riferimenti ai filosofi che popolano il firmamento con le sue stelle, come Kant con il suo monito: “Agisci in modo da trattare l’umanità, nella tua persona e nella persona dell’altro, sempre come un fine e mai come un semplice mezzo”. C’è una terapia utile anche contro il covid: “La crisi di questo nostro tempo potrebbe incoraggiare uno sguardo nuovo sulla vita, capace di farci reagire al disincanto e all’arrendevolezza. Si chiama “apertura”. Il guaio, spesso, è che “soddisfatti dei nostri successi, facciamo fatica a pensare ad un’umana ragionevolezza più aperta alla complessità del vivere, ad una ragione nutrita anche da sentimenti ed emozioni che sappia esprimersi non solo come razionalità calcolatrice”.
Dove abita la felicità
Inoltrarsi tra le pagine di “Kill Venus!” è un’esperienza che fa bene alla mente e al cuore, con domande che interpellano, ma anche con tracce di percorrenza, vissuti di donne dalla filosofa Lou Salomé alla scienziata Marie Curie, piste molto arricchenti e utili per trovare quella “ricercata” globale di nome “felicità”, avendo cura di coinvolgerci su un terreno decisivo, spesso solo aggirato, “che non abbiamo saputo comprendere né tantomeno coltivare”, pervasi dall’idea fuorviante che la felicità sia fatta solo di gioie e piaceri. Qui siamo a una felicità “ben diversa dagli allegri significati promossi e propagandati dal mercato del divertimento”, perché implica “riuscire a sentire la vita nella sua pienezza, leggervi l’unicità del suo cammino, i colori, le sfumature, le ombre e a volte il buio che la accompagnano, giorno dopo giorno”. Fuori dai consumistici surrogati, questo comporta “stare nel tempo, sostare nelle sue lentezze, nei suoi silenzi, esplorando i confini mai del tutto raggiungibili del nostro animo”. Splendidi e attualissimi gli insegnamenti che ci vengono – secoli prima di Cristo – da Socrate con Senofonte e da Solone con Erodoto per arrivare alle scarpine di vernice rossa, icona della felicità inseguita – oggi – da Barbara, un mix di piacere dopo aver soddisfatto il desiderio dell’acquisto. Quanto riusciamo a controllare i bisogni?
Oasi di rivisitazione
Le oasi disseminate fra le pagine da Lina Bertola sono numerose e rigeneranti e favoriscono una rivisitazione personale non superflua, anzi: a partire dal “farsi corpo” nelle diverse sfumature del “sentire, pensare raccontare”, proseguendo nel “danzare la vita” (del resto Nietzsche stesso diceva di poter “credere solo a un Dio che sapesse danzare”, citazione fatta dal vescovo Ernesto Togni parlando di una certa idea della festa). Altra sosta da scoprire: la “sacra voce del silenzio” in un tempo disturbato da troppi rumori di fondo. “È proprio nell’ascolto del silenzio che prende vita il desiderio di entrare in dialogo con sé stessi per esprimersi nella propria verità”. Il silenzio che sta “dietro le parole”, che andrebbe ascoltato e meditato, insegnato ai bambini, imposto a molti comunicatori.
È una perla preziosa, infine, l’epilogo del libro, in cui Lina Bertola racconta la confessione di felicità fattale dal padre, Francesco, mancato poco dopo l’ultimo dialogo con lui. Questa lettera è un capolavoro di sensibilità e di amore, un inno alla vera felicità. Pur su una sedia a rotelle, il padre testimoniava la sua eredità più sublime: “Non posso più fare molte cose, ma proprio per questo mi sento più libero e proprio per questo… è il momento più felice della mia vita”. Conclusione della figlia, che in questo libro fa trapelare con intelligenza e delicatezza la sua autobiografia: questo saper stare nel tempo del padre le “fa pensare a una danza che muove la vita, senza bisogno di andare da nessuna parte”. Fuori da tutte le gabbie, simboliche e non, del tempo e della vita.