UNA SCUOLA CON DUE SCRIVANIE

UNA SCUOLA CON DUE SCRIVANIE

Il grande compito dell’essere docente


La ripartenza porta sempre con sé la voglia di riprendere in mano il proprio sogno; per chi come me ha lavorato una vita nella scuola l’anno inizia a settembre, con la fortuna e la gioia di vedere bambini e ragazzi che si rimettono in cammino verso le proprie aule (non ovunque nel mondo va così!).

Insegnare è una professione difficile, non si vedono subito i risultati del proprio lavoro, si vive una continua sensazione di incertezza: gli alunni hanno bisogno di tempi diversi per lasciar sedimentare le acquisizioni. Il docente vive inoltre la perenne frustrazione della mancanza di tempo, compresso com’è da carichi di lavoro sempre più ingenti (nuove tecnologie e didattica a distanza, programmazioni, necessità di personalizzare i percorsi, correzioni, formazione continua…).

Insegnare è però anche la professione più affascinante al mondo, perché può contribuire a determinare in positivo il percorso di vita del proprio allievo; l’educazione, diceva Aristotele, è come un albero dalle radici molto amare, ma dai frutti molto dolci. Il lavoro dell’educatore è stato molte volte paragonato a quello del giardiniere; in Estremo Oriente chi pianta un bambù sa che dopo un anno non è ancora cresciuto nulla, al secondo anno scruta la terra e ci sono ben pochi segni di vita, al terzo anno quasi si dispera ma… dopo quattro anni spunta un germoglio e poi la pianta, nel giro di sei mesi, può raggiungere l’altezza di 30 metri, e una robustezza tale che tra le canne vi giocano i cuccioli dei panda.

Ciascuno cresce solo se è sognato” diceva il sociologo Danilo Dolci, e Dio sa quanto gli insegnanti sognino e desiderino il successo formativo dei propri allievi! Nei docenti ho sempre trovato tanta passione, impegno, creatività e capacità di “inventare” nuovi percorsi per fronteggiare nuove sfide. Un po’ docente e un po’ alunno, il vero docente resta tale per tutta la vita, perché mantiene curiosità e desiderio di acquisire sempre nuove conoscenze; in tal senso si capisce la motivazione di Piaget, che a 80 anni si spostava settimanalmente da Ginevra a Parigi, pur di non interrompere il cammino di ricerca iniziato coi suoi studenti della Sorbona.  

Nei secoli sono state utilizzate tante parole per identificare il docente; “insegnante” è “chi segna dentro”, non tanto per le nozioni, ma per come è: per come cammina, come veste, come guarda la sua classe, quanta passione ci mette nel far lezione. “Esperto” (da experiri, sperimentare) è colui che si è già avventurato nella ricerca di sé, a volte smarrendo la via, ma cogliendo in ogni naufragio l’annuncio di un porto imperdibile. “Educatore”, da educere, è colui che porta fuori le doti e i talenti di ogni singolo alunno. “Autorità” (da augere, far crescere) è chi è alleato e continuatore dell’autorità dei genitori.  “Professore”, da pro-fateor, è colui che prende la parola e parla dinnanzi; ovviamente, non si tratta solo di una parola verbale, tutto nel docente è parola, soprattutto la sua vita, le sue convinzioni, il suo stile di relazione. Possiamo insegnare solo ciò che siamo, parafrasando Gandhi potremmo dirci: Sii il cambiamento che vorresti vedere nei tuoi alunni”. 

Il lavoro del docente, come tutte le professioni ad alto tasso di relazionalità, ha a che fare quotidianamente con l’emergenza, e la sindrome del burnout colpisce maggiormente chi si impegna di più, chi investe cuore e passione. Un buon proposito per il nuovo anno scolastico è quello di abbandonare aspettative e traguardi irrealistici, venire a patti con ciò che non si può modificare, e soprattutto non rinunciare a uno spazio mentale in cui rielaborare il sovraccarico di stimoli cui si è sottoposti. Ai docenti con cui lavoravo raccomandavo sempre di avere due scrivanie: una a scuola, per insegnare, e un’altra in un luogo imprecisato, potrebbe essere anche il “retrobottega della nostra anima” (come lo definiva il pensatore francese Michel De Montaigne) in cui fermarsi, riprendere il controllo “etico” della situazione, riprogettare il proprio intervento.

Solo a contatto con la nostra interiorità possiamo ritrovare la calma; occorre chiudersi nel proprio “camerino interiore”, accettando i limiti che contrassegnano il nostro stare al mondo, ma anche ritrovando la serenità e la “pulizia emotiva” necessarie per affrontare i problemi con maggior consapevolezza. A volte, per prendersi cura della propria anima, non è neppure necessario tornare a casa, basta fare un passo indietro dalla ressa e ritrovare la propria fonte di creatività.

Ecco il suggestivo passo di Montaigne: “ Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanze …. Noi abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in se stessa; essa può farsi compagnia; ha i mezzi per assalire e difendere, per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di marcire d’ozio noioso in questa solitudine”. 

La seconda scrivania è dunque uno “spazio sacro” che consente di centrarci su ciò che conta davvero, rinnovando la nostra forza spirituale. 

Dev’esserci un patto di corresponsabilità tra la scuola e la famiglia; i genitori vogliono educare i propri figli alla felicità, ma la scuola veicola anche un altro messaggio: bisogna lavorare non solo perché il ragazzo sia felice, ma anche perché abbia un carattere forte. Viviamo in una società che rimuove il dolore, ma la sofferenza è un aspetto ineludibile dell’esistenza. Occorre dire ai ragazzi che non sempre tutto va bene, che a volte dobbiamo riconvertire i nostri sogni. La sofferenza, la lotta, gli ostacoli, gli esami sono indispensabili per crescere; la fatica è una virtù da rivalutare, dà gli strumenti per affrontare le difficoltà.  Nella mia vita non ho avuto tutto quello che desideravo, ma sono state proprio le frustrazioni a darmi una marcia in più verso i miei obiettivi.

Il libro biblico del Qohelet dice: “Il sapere dà dolore, esige fatica”, ma si tratta di una fatica feconda, simile a quella del parto. A lungo ci hanno detto: “basta virtù, è conformismo morale…”; in realtà la virtù è la dimensione più nobile dell’esistenza, è la spinta che ci fa alzare in punta di piedi sulla terra.  Lo sport può essere un modello utile per la scuola: è un continuo ricostruirsi, allenarsi tante ore al giorno, non improvvisare nulla. Lo sport ci insegna anche che non si arriva da nessuna parte se non si fa squadra: genitori e docenti devono fondere i propri orizzonti, e fare insieme il tifo per le conquiste del proprio figlio/alunno, smettendola di farsi del male col “fuoco amico”.  

Chiudo con un proverbio africano: “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Nessuno può chiamarsi fuori dal compito educativo. Buon anno scolastico!