Il missionario dei lebbrosi

Il missionario dei lebbrosi

Intervista impossibile a padre Damiano


Il fiammingo Jozef de Veuster (Damiano con la professione religiosa) nasce a Tremeloo nelle Fiandre il 3 gennaio 1840, in una famiglia contadina. È il penultimo di otto figli: due saranno suore e due preti. Entra ben presto nella Congregazione dei Sacri Cuori. Noviziato a Lovanio, studi filosofici e teologici a Parigi. E poi…

“Il mio desiderio era partire per le missioni. Lo potei realizzare per una curiosa circostanza. Doveva partire mio fratello Phamphile (Auguste al secolo), membro della stessa Congregazione, ma le sue condizioni di salute non glielo permettevano. Così presi il suo posto”

Dove andavi?

“Nelle isole Hawai sul Pacifico. Mi imbarcai a Brema il 9 novembre 1863 e arrivai a Honolulu il 19 marzo successivo. Una bella coincidenza: era San Giuseppe, il mio onomastico.  Così cominciai la mia vita di haole – uomo bianco – tra i canachi, gli indigeni hawaiani. 

Vieni ordinato sacerdote poco dopo il tuo arrivo il 24 maggio. Avevi 24 anni e venivi trapiantato in una terra che non conoscevi. Come ti trovavi? 

“Per gli hawaiani sono stato fin da subito il loro makua, il padre. Mi chiamavano così i pochi cattolici, ma anche gli evangelici e i pagani. Il vescovo, vedendo il mio dinamismo, mi affidò un distretto molto esteso, Kohala-Hamakua a nord-ovest dell’isola: duemila persone su una superficie di 2500 chilometri quadrati, per la quasi totalità privi di strade. I cattolici erano meno della metà. Dovevo viaggiare molto per visitare i miei parrocchiani: andavo a piedi, sovente a cavallo, talora persino a nuoto, per arrivare in luoghi non raggiungibili via terra”.

I Superiori erano preoccupati per il tuo grande impegno, costruivi anche cappelle coinvolgendo i tuoi amici canachi. 

“A volte restavano sorpresi vedendomi trasportare da solo gigantesche assi di legno che ricavavo dagli alberi.  Avevo imparato la loro lingua e apprezzavo il loro carattere festoso. Mi sentivo uno di loro. Era la missione che avevo sempre desiderato ed atteso”. 

Poi però li hai lasciati

“Per Molokai, dove su un promontorio quasi inaccessibile di 12 chilometri quadrati nell’appendice settentrionale di quell’isola, dal 1866 vi venivano confinati i lebbrosi, in attesa che quel terribile morbo ponesse fine ai loro giorni. Vi giungeva settimanalmente un battello portando viveri e «i nuovi condannati per reato di lebbra». Il Vescovo nel 1873 aveva deciso di inviare quattro missionari, che avrebbero dovuto darsi il cambio secondo turni prestabili. Quel progetto però non andò in porto. Così andai da solo. Vi arrivai portando soltanto due cose: il breviario e una croce”.

Cosa puoi dire di quel luogo di emarginazione e sofferenza. 

“Era definito la colonia della morte.  C’era pure tanta violenza. Trovai solo una cappella dedicata a Santa Filomena e neanche una baracca in cui ritirarmi. Per parecchio tempo dormii sotto un albero, non osando entrare dove stavano i lebbrosi. Poi mi convinsi che dovevo superare quella distanza di sicurezza che mi era stata consigliata per evitare il contagio”.

Eri il prete, il medico e il padre. Fissavi le regole, esigendo da tutti correttezza e rispetto.  

“Mi sentivo uno di loro fino a usare l’espressione «noi lebbrosi». Mangiavo con loro, li curavo per quello che potevo. Costruii piccole case, cappelle, refettori, dormitori; preparai anche bare e scavai tombe nel cimitero che avevo preparato, perché anche la morte fosse dignitosa. Inoltre iniziai a organizzare le attività agricole, basandomi su quanto appreso da ragazzo nella mia famiglia”. 

È’ vero che le autorità e persino i tuoi confratelli ti definivano ostinato, brusco, impertinente? 

“La mia ostinazione era per raggiungere quello che mi ero prefissato: aiutare quelle persone, di fatto abbandonate, a vivere ancora da uomini per quel tratto di strada che la malattia poteva loro concedere”.

Temevi la lebbra? 

“Sapevo che un giorno o l’altro sarebbe arrivata. Una sera di gennaio del 1885, al ritorno da una lunga camminata lungo quel promontorio, immersi i piedi nell’acqua bollente e non avvertii il forte calore. Allora compresi. Era quella che chiamavamo l’anestesia della lebbra”. 

Come hai reagito? 

“Non era una sorpresa; conoscevo bene quella malattia e il suo decorso”.  

Non hai pensato di lasciare Molokai, per cercarti un luogo tranquillo dove essere assistito? 

“Sarebbe stato un tradimento. Ero diventato del tutto uno di loro e proseguii nei miei progetti. Nel frattempo ero stato raggiunto da quattro collaboratori: un sacerdote, una suora, un soldato americano in congedo e un’infermiera. Ero contento nel vedere che la mia opera sarebbe continuata e che i lebbrosi di Molokai non sarebbero stati abbandonati”.

Muore il 15 aprile 1889, a 49 anni. Viene sepolto a Molokai e in seguito, nel 1936, le sue spoglie mortali vengono portate in Belgio, a Lovanio, vicino al suo nativo villaggio contadino.

Beatificato da Giovanni Paolo II a Bruxelles il 4 giugno 1995, viene proclamato santo da Benedetto XVI l’11 ottobre 2009.